Il sabato mattina, nella scuola di yoga che frequento, c’è una lezione di due ore, dalle 11 alle 13. È una sorta di maratona. Sai come cominci ma ignori se e come finirai. Due ore possono essere lunghissime e devastanti. Ma possono anche rivelarsi una bolla di meraviglia, in cui sospendi i pensieri e resti lì, a respirare e muoverti. Prima, non sai come saranno questi 120 minuti: brevi, eterni, una discesa verso gli inferi, una scalata all’olimpo, una poesia, l’elenco telefonico di Nuova Dheli.
C’è sempre moltissima gente in queste lezioni del sabato, tutti appiccicati, indifferenti all’eccessiva prossimità tra corpi. Evidentemente le maratone non fanno paura ai più. A me sì, invece. Per mesi non ho osato partecipare. Oltre alla fatica temevo la noia, perché io ogni tanto mi annoio. Un maestro di yoga direbbe che se ti annoi è poprio nella noia che devi immergerti, ma va be’. Però sabato scorso ho rotto gli indugi e quelle due ore si sono rivelate la cosa migliore della settimana (il che dà anche la misura della qualità complessiva della mia settimana ma questa è un’altra storia).
Oggi sono tornata – stessa lezione, stesso insegnante, altra consapevolezza. Io e il mio tappetino eravamo programmati per l’estasi. Ho persino trovato uno spazio vicino al muro che, per molteplici motivi, è una posizione ambita. Andava tutto bene, fluttuavo stravolta e felice. Ascoltavo il maestro – immaginarie ali spiegate, cervello spento, tra un’inspirazione e un’espirazione tutti i motivi per cui sono stata fulminata dallo yoga.
A un tratto però il mio piede destro, atterrato sulle propaggini posteriori del mio tappetino color melanzana (strana scelta il color melanzana), è scivolato sul bagnato. Be’? C’erano quattro, cinque, sette enormi gocce, una piccola pozza, la costellazione dei laghi del Minnesota, sul mio rettangolo di beatitudine. Sudore. No, non mio. Io non traspiro laghi del Minnesota. Era il copioso sudore del tizio madido dietro di me che, evidentemente, sportosi oltre i confini del suo territorio, è venuto a gocciolare nel mio regno melanzana.
Ho posato uno sguardo incredulo prima sulla pozza e poi su di lui, imperturbabile nella posizione della danzatrice.
Ho trascorso quel che restava (tanto, troppo) delle due ore in uno stato di vigile disgusto e rabbia repressa. E progressivamente si è fatto largo un interrogativo che ha virato pericolosamente nell’autocoscienza. Il problema sono io, essere umano meschino e insofferente, incapace di elevarmi al di sopra degli umori individuali, abbracciando la consapevolezza che siamo tutti parte del medesimo universo umido? Oppure il problema è lui, creatura dalla sudorazione impazzita, incurante della propria incontinenza, impunito invasore di altrui regni, colpevole di improntitudine e disattenzione?
Alla fine lui non ha chiesto scusa, io ho sfregato il mio tappetino con torva frenesia fino a consumare la melanzana. Non siamo diventati amici, ma nemmeno ci siamo picchiati. La strada è ancora lunga, lunghissima, infinita. Altro che due ore. È il bello e il brutto dello yoga.
Ahahahah conosco benissimo la dimensione e lo stato di Yoga è di fatto una espansione intima che si fonde con l’esistenza tutta ⚡️✨🥰
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