Siamo a Napoli. Mio fratello e io. Non viaggiavamo da soli insieme dal 1994 quando andammo a Londra e io, sorella maggiore ipercinetica, obbligai lui, adolescente, a ritmi di visita forsennati, tanto che, a un certo punto, simulò un malore e riuscì, per un pomeriggio intero, a fermare la mia pazza corsa metropolitana.
Abbiamo lasciato le nostre cose e la nostra prole (la mia ha festeggiato
ma la sua, ben più acerba, non era contenta) per una fuga di 50 ore circa, per ritrovare il nostro papà che era nato qui e di questa città si sentiva figlio.
“C’era una spiaggia dove andava da piccolo” ha detto mio fratello sul pullman per l’aeroporto. Ha cercato il nome sulla guida rossa: Miliscola, si chiama.
In realtà, in quella spiaggia con l’accento tonico sulla “o”, nostro padre bambino avrebbe voluto andarci più spesso. Ma la sua mamma, la nonna Anna, non ce lo portava. Ogni tanto ci pensavano delle zie magnanime, ma sempre troppo di rado.
Così ieri pomeriggio, appena arrivati a Napoli, abbiamo deciso di andarci noi, con la ferrovia cumana e un autobus. Chissà quali mezzi usava lui, insieme alle zie magnanime.
Siamo arrivati poco prima del tramonto. Gli stabilimenti dormivano. La spiaggia era vuota e struggente come il mare d’inverno.
Ci siamo seduti su lastre di marmo messe lì forse per noi.
E poi mio fratello ha sospirato. “Mi dispiace che papà non veda questa Inter”.
Perché i maschi talvolta fanno pensieri basici e grandissimi.
Poi è venuto buio, abbiamo preso un autobus e siamo tornati a Napoli.
A cena abbiamo mangiato la pizza.